I libáni

I libàni nella popolazione vegetale di Maratea 

Il termine "libáno" è comunemente usato per descrivere un'erba che cresce lungo pendii pietrosi ed esposti al sole, tipicamente in contesti di gariga, ovvero di  boscaglia mediterranea costituita da piante arbustive basse sempreverdi (rosmarino, timi, ginestre, palma nana, ecc.), tra i quali vegetano abbondanti specie erbacee.
Le sue foglie, piegate e legate, erano tradizionalmente impiegate per realizzare scope usate per pulire il fondo dei forni. Scientificamente identificata come Ampelodesmus mauritanucus questa erbacea è tra le più vistose della flora di Maratea formando ampi ciuffi isolati con foglie coriacee e ricadenti, che possono raggiungere lunghezze di circa un metro e mezzo. Durante la fase di fioritura, spuntano steli inconfondibili dal centro del ciuffo, lisci e dritti, simili a cannucce, che vengono utilizzati per creare vassoi su cui far essiccare i fichi.


Origine della parola libàno

Una delle attività più diffuse a Maratea nel secolo scorso era proprio l'intreccio di questa erba locale per la produzione di corde marine chiamate “Libáni" o in lingua locale “Libbani”. L'etimologia del termine "libáno" discende praticamente immutata dall'arabo "libāno", che significa "corda", indicando così "l'erba per corde" per antonomasia.
Questa parola araba ha presumibilmente fatto il suo ingresso nella nostra lingua nei secoli in cui i naviganti-mercanti frequentavano i vari porti delle sponde meridionali e orientali del Mediterraneo. Allo stesso modo, i termini "arsenale" e "darsena" nella nomenclatura marittima derivano dall'arabo "dārşinā’a", che significa "casa del lavoro" o “officina".

I vari usi dei libáni

I "libbani" vennero prodotti a Maratea fino alla fine degli anni '70. La loro lavorazione era un'importante attività economica per la comunità locale, e le corde venivano utilizzate per una varietà di scopi, tra cui principalmente pesca ma anche l'agricoltura, l'artigianato e la costruzione. Per quanto riguarda la pesca , oltre ad essere utilizzati come sartiame dai pescatori locali, i libbani venivano usati per l’acquacoltura ed in particolare la mitilicoltura, ovvero la coltivazione di mitili, sopratutto cozze e ostriche . Le mitilicoltura, pratica diffusa lungo varie coste italiane, si basa sull'innesto di mitili su corde appunto denominate “libani", corde che sono appese penzolanti nell’acqua su particolari strutture denominate “pergolati”. Questa pratica era particolarmente comune in diverse zone, tra cui Napoli, Gaeta, il Mar Piccolo a Taranto, il lago di Ganzirri (Messina), La Spezia, la laguna veneta, il litorale triestino e Olbia. Proprio per questo particolare uso la maggior parte della produzione di libáno da Maratea veniva trasportata nelle varie zone di allevamento da varie aziende commerciali. In particolare la Ditta Trotta di Maratea aveva depositi a La Spezia, Taranto e Messina per fornire le corde prodotte dalle donne di Maratea ai mitilicoltori locali (in foto: Etichetta di spedizione). Tale attività è durata sino a quando un importante sviluppo tecnologico, avvenuto intorno agli anni sessanta del secolo scorso, ha contribuito alla diffusione della mitilicoltura in Italia ma ha decretato contemporaneamente la fine dell’utilizzo dei libani. L’innovazione ha consistito nell'introduzione delle reti tubolari in polipropilene in sostituzione dei tradizionali libani per la confezione delle corde utilizzate nella coltivazione dei mitili.

Come si producono i libáni


La lavorazione era un processo laborioso e richiedeva molta abilità. Per prima cosa le donne scandagliavano i pendii e le coste delle montagne alla ricerca dei “tagliamani”, parola con cui nella lingua locale veniva chiamata l’erba per via dell’estrema affilatura delle sue foglie che per questo dovevano essere raccolte con particolare attenzione. 

Le fibre vegetali venivano pulite e spezzate in fili sottili e raccolti in fasci che venivano lasciati in ammollo per un certo tempo. Quindi si procedeva alla “ mazzoccolatura”, la fase in cui le foglie vengono percosse con delle tozze mazze di legno. 

Alla fine i “fili” così ottenuti venivano intrecciati tra loro per arrivare ad ottenere i libbani, prodotti in una varietà di dimensioni e spessori, a seconda del loro utilizzo. Le corde più sottili venivano utilizzate per la pesca, mentre le corde più spesse venivano utilizzate per l'agricoltura o la costruzione. I libbani erano anche utilizzati per la produzione di oggetti artigianali, come cesti, tappeti e borse. 

Nella foto ( da calderano.it, , il database delle foto storiche di Maratea) un'anziana signora negli anni '60 che lavora i libàni.


I libáni oggi a Maratea


La produzione dei libbani a Maratea, scomparsa negli anni ’70 come abbiamo visto a causa della concorrenza di materiali sintetici più economici. ha conosciuto negli ultimi anni un rinnovato interesse per il recupero di questa antica tradizione.
Nel 2019, nell'ambito di Matera Capitale Europea della Cultura, è stato avviato il progetto Ri-Corda, che ha avuto l'obiettivo di recuperare la lavorazione dei libbani a Maratea. Il progetto ha coinvolto un gruppo di donne della comunità locale, che hanno imparato la tecnica tradizionale di produzione dei libbani.
Il progetto Ri-Corda ha avuto un successo significativo, e ha portato alla creazione della  Nuova Libbaneria Mediterranea, un'impresa sociale di comunità che si occupa della produzione e della commercializzazione dei libbani.
La Nuova Libbaneria Mediterranea offre una varietà di prodotti realizzati con i libbani, tra cui corde, cesti, tappeti e borse. I prodotti sono realizzati con materiali di alta qualità e con tecniche tradizionali, e sono apprezzati da un pubblico sempre più ampio.
La riscoperta dei libbani a Maratea è un esempio di come l'artigianato tradizionale possa essere valorizzato e reso competitivo nel mercato moderno. I libbani sono un prodotto di alta qualità, con un'identità forte e radicata nel territorio. La loro produzione contribuisce alla valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale di Maratea.


a cura di Jean Marout 

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